Il gusto della storia: viaggio gastronomico e agricolo in Ticino

Dalle valli di Maestro Martino ai Presìdi Slow Food, radici, resilienza e rivalutazione della cucina ticinese

La storia del cibo in Ticino è fatta di fatica e ingegno. Coltivare qui ha significato per secoli domare la montagna. Patate, rape, orzo, poi mais e vite: ogni coltura è frutto di compromessi tra natura e volontà.

Le vallate raccontano un'epopea silenziosa fatta di resistenza, dove la fame è stata per lungo tempo la vera regista dei piatti. Eppure, proprio da qui, da questo scenario di austerità, nasce una cucina che oggi rivendica il proprio valore: sostenibile, radicata, consapevole, fiera, genuina; una cucina i cui ingredienti (e luoghi) sono eccellenze che raccontano storie e tradizioni lontane nel tempo.

Una terra di sfide: l’ingegno agricolo ticinese

Se si pensa al Canton Ticino, sole, accoglienza e buon vivere sono certamente gli aspetti più comuni. Al contrario di quel che si potrebbe pensare, però, questa terra nel cuore della Alpi meridionali ha storicamente posto una sfida a chi lo abita. Con un territorio prevalentemente montuoso, pendenze che superano spesso il 60% e un clima instabile, il lavoro agricolo non è mai stato semplice. Dove altrove bastava arare una pianura, qui era necessario costruire chilometri di muretti a secco per trattenere la terra, modellare terrazze sui fianchi delle montagne, domare la natura per renderla coltivabile.

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Le vallate come la Vallemaggia e la Verzasca sono ancora oggi segnate da queste architetture del lavoro contadino: patate, rape, cereali, castagne e – nei punti più soleggiati – la vite. La geografia aspra ha insegnato a valorizzare ogni centimetro di suolo disponibile, trasformando il bisogno in sapienza.

Eppure, il Ticino non è mai stato solo terra di fatica. Situato su importanti vie di comunicazione tra il nord e il sud dell’Europa, è stato per secoli un crocevia di merci, persone, lingue e ricette. Un luogo in cui il vivere agricolo si è intrecciato alla cultura dell’ospitalità, alla necessità di accogliere e nutrire viandanti, commercianti, pellegrini. Questa duplice natura – aspra e al contempo generosa, chiusa e aperta – ha plasmato nel tempo un’identità gastronomica unica, fatta di radici profonde e influenze sottili.

Maestro Martino e le radici ticinesi della gastronomia moderna

È in questo contesto che, nel XV secolo, nasce una figura destinata a rivoluzionare la cucina europea e non solo. Martino de’ Rossi, meglio conosciuto come Maestro Martino, originario della Valle di Blenio, era un cuoco - di straordinaria abilità - in una di quelle cucine d’ospizio lungo la via del Lucomagno, tra le strade più battute dell’Europa medievale.

Martino lasciò il Ticino (allora territorio sotto il dominio del Ducato di Milano) per approdare nelle cucine degli ambienti più raffinati e importanti del tempo (dalle corti sforzesche di Milano ai fasti degli ambienti papali) e passare alla storia come il «Principe dei cuochi» del Rinascimento. Colui che per primo trasformò l’arte culinaria in cultura gastronomica accessibile.

Martino, infatti, ordinò le ricette scrivendole e codificandole affinché diventassero comprensibili a tutti. Eliminò le spezie esotiche - tanto care alla cucina medievale - e restituì valore agli ingredienti locali, alle erbe aromatiche, alle verdure considerate «povere».

Si può dire che Maestro Martino incarnava quella filosofia che oggi Slow Food promuove in tutto il mondo: il rispetto della stagionalità, l’uso di prodotti del territorio e la filiera corta, la semplicità autentica come forma di eccellenza a tutela del patrimonio ambientale e culturale. Il suo pensiero culinario era figlio di un paesaggio difficile, ma anche di un mondo in dialogo.

Oggi questo spirito di dialogo tra memoria e territorio vive ancora. Lo si trova nei muretti a secco delle terrazze, nelle architetture naturali dei grotti, nei castagneti, negli orti e nei filari di vite che costellano valli ricche di biodiversità. Il cibo qui è storia che accoglie, fatica che nutre, comunità che si trasmette.

Oltre il vino: storia dei protagonisti della tavola ticinese

La storia gastronomica del Ticino è un intreccio affascinante di necessità e ingegno, dove ogni prodotto racconta secoli di adattamento e creatività. Partendo dal formaggio, iniziando il nostro viaggio attraverso i sapori che definiscono l'identità culinaria della regione.

Dopo la peste del Trecento, i campi ticinesi subirono una trasformazione significativa. Molti terreni coltivati furono convertiti in pascoli, dando inizio a una fiorente tradizione casearia. Il formaggio divenne non solo una risorsa economica fondamentale, ma anche un vero e proprio simbolo culturale. Nacquero i caseifici d'alpeggio, punti nevralgici del gusto incastonati tra le vette. Oggi questi formaggi dell’alpe, robusti, fatti con latte crudo e affinati in quota, sono il simbolo di una cultura che unisce paesaggio, lavoro e gusto autentico. Qui il formaggio è un vero simbolo identitario.

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Zincarlin da la Vall da Mücc

Lo zincarlìn è un formaggio tradizionale prodotto nella zona di confine tra il Canton Ticino e la Lombardia, tra il lago di Lugano e il lago di Como. La versione del Presidio è prodotta sul versante svizzero del Monte Generoso, nel Canton Ticino. È un formaggio a pasta cruda, fatto principalmente con latte vaccino crudo, a volte con l'aggiunta di latte caprino. La forma ricorda una tazza capovolta e pesa tra 200 e 400 grammi da fresco.
Il processo di produzione prevede una coagulazione lattico-presamica di 24 ore, seguita da una scolatura in telo per almeno un giorno. La pasta viene poi mescolata con sale e pepe e modellata a mano. La stagionatura minima è di due mesi e avviene in cantine semi-interrate sul Monte Generoso. Durante questo periodo, il formaggio viene trattato con vino bianco e sale per prevenire muffe indesiderate. Con la maturazione, lo zincarlìn sviluppa una pelle giallo-rossiccia e una pasta morbida, acquisendo complessità aromatica.

L'allevamento di bovini, però, non è l’unico ad aver giocato un ruolo centrale nell'economia e nella gastronomia ticinese. Altre protagoniste della cucina locale erano le capre, quelle che un tempo erano considerate le vacche dei poveri. Documenti degli anni ’50 del Novecento descrivono i paesi delle valli del Locarnese «invasi dalle capre: gli animali erano dappertutto, persino sui tetti delle case». In quasi tutte le famiglie, a novembre, si organizzava la cosiddetta mazza minore, ovvero la macellazione delle capre per la produzione dei Cicitt, oggi Presidio Slow Food.

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Presidio Slow Food: I Cicitt delle Valli del Locarnese
I Cicitt sono salsicce lunghe e sottili, che si preparano in autunno con la carne, il grasso e il cuore della capra insaccati negli intestini dell’animale. Sono di colore marrone scuro e si mangiano arrostiti sul fuoco. Hanno un profumo penetrante di capra, di spezie e di fumo. Si ritiene che i Cicitt siano originari di Cavergno, un piccolo paese nell'Alta Val di Maggia. Qui si trovano ancora due dei pochi produttori rimasti.

Ma il formaggio e la carne di capra sono solo l'inizio del ricco panorama gastronomico ticinese. Un altro ingrediente base dell’alimentazione montana era la castagna che veniva chiamata il «pane dei poveri». Essiccata nelle Graa - rustici essiccatoi in pietra che custodivano la raccolta dell’autunno - e macinata, dava origine a una farina versatile, nutriente e conservabile, rendendola preziosa per superare i rigidi inverni alpini. Ancora oggi i castagneti secolari sono testimoni silenziosi di una storia di sopravvivenza e ingegno culinario, così come le Graa, ancora attive nei piccoli borghi in valle, come luoghi di condivisione e trasmissione di tradizione alle nuove generazioni.

Poi, nel Settecento arrivò il mais dall’America, una coltura che conquistò i campi e i paioli del Ticino, segnando un cambiamento epocale. Per secoli, la polenta era semplicemente: il cibo. Accompagnata, se andava bene, da cose semplici come carne di capra o un pezzo di formaggio, questo piatto divenne un pilastro dell’alimentazione ticinese, affiancandosi o sostituendo le castagne. Prima di diventare gialla, infatti, la polenta era grigia, fatta di farina di castagne o di altri grani minori.

La diffusione della polenta, e quindi del mais, cambiò non solo le abitudini alimentari, ma anche il paesaggio agricolo, con la comparsa di nuovi mulini e terrazzamenti dedicati alla sua coltivazione.

Oggi questo spirito di dialogo tra memoria e territorio vive ancora. Lo si trova nei muretti a secco delle terrazze, nelle architetture naturali dei tipici grotti, nei castagneti, nei terreni coltivati dai contadini locali, nei fiori che danno origine a mieli profumati, nel ritorno dei birrifici artigianali diffusi in Ticino alla fine dell’Ottocento con l’apertura della galleria del Gottardo e oggi reinventati, e nei filari di vite che costellano valli ricche di biodiversità.

È un'eredità viva quella di questa regione, che continua a evolversi grazie alle nuove generazioni molto legate alla propria terra, mantenendo salde le radici nella ricca cultura gastronomica di questa terra alpina.

Il cibo, in Ticino, è storia che accoglie, fatica che nutre, comunità che si trasmette.

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